Ho fatto una telefonata e mi è venuta l’ansia.
Non come quando chiamo il ristorante per l’ennesima volta per aggiungere sei posti al tavolo che ho prenotato il giorno prima – grazie amici, siete sempre sul pezzo –, ma come quando all’esame di diritto privato sono scappata prima che facessero l’appello.
Mi succede ogni volta che devo conoscere nuove persone che potrebbero giudicarmi, a cui potrei non piacere. Nell’ultimo caso è perché ho chiamato un maneggio per ricominciare ad allenarmi a cavallo. Sono felicissima, ma anche preoccupata di non essere più così brava.
È un problema, e non di autostima, ma di paura di venire giudicata.
Lo sto capendo, e ci sto lavorando. Mi hanno spiegato che è come se quando interagisco con altre persone ci fossero tre specchi: uno puntato su di me, uno sull’altra persona, uno esterno che mostra entrambi. Io mi focalizzo su quello puntato su di me, ho paura di sbagliare agli occhi degli altri. Ma mi dimentico spesso di guardare lo specchio puntato sull’altra persona, per capire in che modo sta reagendo a quello che dico o quello che faccio; e ancora più spesso mi dimentico del terzo specchio, quello che mostra entrambi, per capire in che modo, insieme, stiamo reagendo alla situazione.
È un esercizio che mi rendo conto essere importantissimo soprattutto quando a lavoro ho bisogno di creare affiatamento con le altre persone.
Ne ho parlato con Giuseppe De Domenico, trentenne, messinese, attore, per conoscere il punto di vista di chi ogni volta, per ogni progetto, deve entrare in sintonia con persone diverse.
Dopo il liceo, Giuseppe decide di partire per seguire il suo sogno: diventare attore. Studia a Roma e poi a Genova, dove si diploma nel 2016 alla Scuola di recitazione del Teatro Stabile. Dopo diversi anni a teatro, comincia a lavorare nel cinema, recita in Ragazze a mano armata, Euforia, Adesso tocca a me - Paolo Borsellino fino alla serie tv internazionale ZeroZeroZero, diretta da Stefano Sollima, e alla serie su Amazon Prime Bang Bang Baby.
Quando hai iniziato a recitare?
Già quando ero molto piccolo, grazie a mio padre, che da sempre ha portato il teatro in casa, facendomi fare piccole parti in alcune commedie. Più avanti, durante l’adolescenza, ho iniziato a rendermi conto che recitare mi poteva aiutare nella vita di tutti i giorni, e ho deciso di frequentare una compagnia teatrale. Subito dopo ho deciso di continuare a studiare per diventare attore professionista, e mi sono iscritto a una scuola di recitazione di Roma.
In che modo la recitazione ti ha aiutato?
In quegli anni non mi era stato insegnato a riconoscere i miei sentimenti. La recitazione, invece, mi obbligava a interpretare le emozioni e così facendo mi aiutava ad associare termini a stati d’animo, ad entrare in confidenza con l’emotività.
Era qualcosa di cui avevo bisogno, che in più mi appassionava e ancora oggi mi appassiona molto. È il motivo per cui sono diventato attore.
Finite le superiori ti sei subito trasferito a Roma?
No, in realtà dopo il liceo mi sono iscritto a Ingegneria Edile a Messina. Ho lasciato presto l’Università per seguire il mio sogno di dedicarmi allo studio della recitazione.
Mi sono trasferito quindi a Roma, ma non ho terminato i miei studi lì, sono andato via per un litigio con la Dirigente che c’era al tempo. Per la seconda volta, dopo l’Università, sento di aver deluso le persone vicine a me per non aver concluso un ciclo di studi.
Quell’esperienza però mi ha convinto delle mie capacità: con una sicurezza brutale mi sono detto che andarmene era stata la decisione giusta, avrei espresso meglio il mio potenziale in un altro posto.
Mi sono posto come obiettivo di essere ammesso alla scuola del Teatro Stabile a Genova, convinto che sarei rientrato tra le dieci persone che selezionano ogni anno. E avevo ragione! Mi selezionano, mi diplomo e torno a Roma con la qualifica di attore professionista. Quel percorso ha segnato una svolta nella mia carriera.
È stato a Genova che hai deciso di dedicarti al cinema?
Esatto: alla scuola mi impegnavo tantissimo, ma non venivo mai scelto per ruoli che mi dessero importanza o spazio negli spettacoli. Ne soffrivo, mi chiedevo cosa stessi sbagliando. Così la mia insegnante a Genova mi ha suggerito di dedicarmi al cinema.
Ci ho provato, e nel giro di un anno sono stato selezionato per i miei primi ruoli, incluso quello in ZeroZeroZero. Era chiaro che l’esigenza che sentivo di raccontare, concentrata nel canale giusto, poteva darmi degli ottimi risultati.
Dopo essere passato dal teatro al cinema ed aver trasformato la tua passione in professione, c’è qualcosa che è cambiato nel tuo approccio alla recitazione?
Sicuramente sì: quando ho iniziato a lavorare ragionavo per assiomi: “Io faccio l’attore, per me è un lavoro prettamente emotivo, quindi se sono in un set importante, con tanti professionisti intorno, sarò ancora più legittimato a mostrare le mie emozioni”.
Quindi cosa facevo – adesso aggiungo – “erroneamente”?
Se il mio personaggio nella scena doveva essere particolarmente agitato, nervoso o scontroso, mi permettevo di mantenere quell’atteggiamento durante tutta la giornata lavorativa, trascinando le emozioni da fuori a dentro la scena. Da attore, non pensavo potesse essere giudicato il modo in cui lavoro con le mie emozioni: se la scena andava bene, avevo fatto il mio dovere.
Ma è un metodo che ho dovuto cambiare per forza per evitare di essere giudicato dalle persone che lavorano con me. Ho capito che quando si tratta di emotività la gente empatizza: se faccio lo scontroso, sto sulle palle alle persone. Ci sto ancora lavorando.
Come sta andando?
Ogni tanto mi sento finto, mi sembra di non giocare tutte le mie carte, perché ogni volta che mi trovo in una situazione professionale mi sforzo di scegliere razionalmente quale sia “il Giuseppe migliore” da presentare. Però riconosco che è un codice di comportamento condiviso dalla maggior parte delle persone intorno a me e, per quanto io possa avere uno spirito romantico, sono consapevole che è una strada che devo per forza percorrere.
Lavorando con le emozioni è normale che si entri in empatia con le persone che ti stanno intorno. C’è qualcosa che fai sui set che secondo te aiuta a gestire meglio questi legami e a creare affiatamento?
I grandi set hanno di solito una struttura molto gerarchizzata e solitamente si tende a rimanere separati. Nelle piccole realtà, invece, ad esempio nel cinema indipendente, c’è una grande condivisione dei compiti e un grande sentimento di squadra. Penso che sia dovuto all’amore nei confronti di un progetto comune, la sensazione di lavorare per un risultato condiviso.
Quello che faccio io per sentirmi sempre parte di una squadra è passare molto tempo con tutti, non solo con il regista o con lo sceneggiatore, con cui interagisco e lavoro mentre sto facendo la scena. Voglio sentirmi parte di una squadra che include tutte le persone che lavorano con me.
Continui a esercitarti con il lavoro sulle emozioni anche fuori dal set?
Sì, anzi, anche in fase di provino mi rendo conto che è sempre più importante imparare a fare questo cambio emotivo, passando da dentro a fuori dal mio personaggio. Quello che mi distingue non è soltanto come faccio la scena, ma soprattutto chi sono io come essere umano, come professionista: come mi comporto quando entro in una stanza, come mi relaziono con i colleghi.
È faticoso, e tante volte mi devo impegnare per far emergere l’opposto rispetto a ciò che sento di essere.
C’è un provino che ti ricordi in particolare, in cui hai dovuto gestire le emozioni più di quanto ti aspettassi?
Il provino finale per ZeroZeroZero. È stato un test sulla mia psicologia e sulla mia capacità di gestire lo stress. Dovevo preparare cinque scene, e mi hanno chiesto di ripeterle per cinque-sei volte, senza pause.
Ogni volta mi veniva detto che avevo sbagliato qualcosa, che dovevo rifare la scena in modo diverso, ogni volta, a ogni prova: “Hai sbagliato, la devi rifare”.
Mi stavo giocando un ruolo importantissimo per la mia carriera, capisci che sentirmi dire di “no” in continuazione mi stava mettendo molta pressione.
Io probabilmente avrei pianto.
A me ha salvato l’istinto ed è stato fondamentale un consiglio di un mio amico attore, che mi ha ricordato: “Se sei arrivato a questo punto vuol dire che nelle altre fasi del provino hai fatto qualcosa che ha funzionato. Non devi proporre qualcosa di diverso rispetto a quello che hai già fatto, devi dimostrare di essere coerente con la proposta che stai portando avanti, altrimenti avrebbero scelto un’altra persona”.
Quindi in quella situazione, nonostante fosse psicologicamente pesante resistere davanti alla negazione, ho continuato a lavorare, non ho sbroccato, non ho chiesto pause. Pensavo: “Continua a lavorare, continua a lavorare. Saranno cazzi loro, saranno cazzi loro”.
Finito il provino, ovviamente: “Le faremo sapere”. Ho aspettato tutto il fine settimana in uno stato cadaverico. Ma era andata bene, ora posso dirlo con certezza!
E poi sul set com’è andata?
È stata una delle esperienze più intense della mia vita, su quel set sono cresciuto tantissimo. È lì che continuavo a trascinarmi il personaggio fuori dalla scena. Mi sono dovuto chiarire con un po’ di persone in quel periodo, per come mantenevo le emozioni del set durante la giornata di lavoro. Dal mio punto di vista ne valeva la pena: ero ostinato dal fare quel tipo di ricerca e sono contento del risultato, perchè mi ha permesso di ricevere dei bellissimi feedback in giro per il mondo.
Adesso però hai deciso di rinunciare a quel tipo di metodo.
Esatto, non voglio rinunciarci del tutto però, cercherò di modularlo, e penso sia questa la vera sfida. Non voglio annullare completamente Giuseppe solo per sentirmi diligente, bravo, riconosciuto e apprezzato.
Non sempre accontentare le persone è la cosa che ci fa stare meglio.
Vero, penso che non basti fermarsi a quello che la società definisce “felicità” e comportarsi diligentemente per ottenerlo: bisogna scoprire da soli cosa ci rende felici, cosa desideriamo davvero.
Tu hai scoperto cosa desideri?
Io ci sono cascato: volevo essere il migliore attore italiano della mia generazione, avere almeno un milione di follower sui social, volevo avere così tanti soldi da potermi comprare i migliori occhiali da sole delle marche più costose. Però tutto questo mi ha portato alla depressione.
Da un lato volevo i numeri sui social, volevo essere famoso, ma poi non riuscivo a condividere la mia vita, mi trovavo a casa a pensare: “Cosa pubblico io, che sono qui depresso alle tre del mattino a giocare alla PlayStation? È un’immagine che non posso dare di me, devo far vedere che sono felice, che ho il successo”.
Ora come stai?
Meglio. Per sentirmi meglio, ho deciso di lavorare a cose che mi piacciono, e così ho aperto una società di produzione video. Ho scoperto di essere bravo a organizzare, pianificare, monitorare il lavoro degli altri.
Ho prodotto insieme a un mio amico un primo lungometraggio e recentemente ho iniziato a lavorare con una casa editrice per realizzare una collana di pubblicazioni sulla recitazione.
Con la casa editrice è nato un progetto molto interessante: mi esporrò parlando della mia professione, di cose che posso insegnare ad altri professionisti di tutti i settori. Ad esempio, racconto cosa faccio quando mi sento ansioso prima di un provino, oppure quando ho bisogno di concentrarmi.
Questo nuovo modo di utilizzare la tua esperienza di attore ti piace?
Molto! La recitazione fa parte della mia vita e per la prima volta non è più idealizzata come unica fonte di realizzazione personale: è uno strumento che mi permette di costruire rapporti con altre persone, che empatizzano con quello che racconto attraverso le emozioni del personaggio che interpreto.
Grazie a questo progetto, ho la possibilità di creare un pubblico che è contento del lavoro attoriale che faccio e posso aiutarli come io cerco di aiutare me stesso.
Insomma, questo è il progetto, che tradotto in poche parole è: mi piace fare divulgazione, sia attraverso racconti d’arte, sia attraverso la formazione.
Si torna al concetto di mondo in continuo cambiamento, e alla voglia di stargli dietro. Tu come lo affronti?
Io sto continuando a studiare, con il MIT di Boston sto scoprendo di più sulla rivoluzione digitale, su nuovi concetti di finanza.
Uno dei consigli più utili che ho ricevuto recentemente viene da Stefano Sollima, il regista di ZeroZeroZero. Penso sia un monito per questi tempi: “Ricordati sempre che è una maratona, e non una corsa a cento metri”. Quante volte vediamo gente sfrecciarci accanto, che sembra abbia realizzato tutto. Non è vero, non c’è un traguardo, ci sono chilometri e chilometri, è molto più lunga di come la percepiamo.