A sette anni ho vinto la mia prima negoziazione.
Per il suo settimo compleanno, una mia amica ha deciso di festeggiare nel maneggio in cui aveva cominciato ad andare a cavallo. Nei giorni successivi i miei genitori hanno cercato in tutti i modi di evitarmi perchè ero diventata abbastanza assillante su un’unica richiesta per loro: tornare dai cavalli.
Qualche settimana dopo, veniva imbucato nella nostra cassetta delle lettere un foglio firmato “Il Presidente degli Stati Uniti d’America”, che chiedeva urgentemente che io e mia sorella venissimo portate a lezione di equitazione, del resto eravamo delle bravissime bambine e lo saremmo state ancora di più.
La grafia era quella di una bambina di sette anni, con tanto di cuoricini al posto dei puntini sulle “i”.
Così ho vinto la prima negoziazione della mia vita: esasperando la controparte.
Nei dieci anni successivi ho imparato che gli animali e la natura vanno conosciuti, ascoltati, amati rispettando i loro tempi e le loro inclinazioni, e tutto questo mi ha reso felice.
Eppure, col tempo ho iniziato a farmi qualche scrupolo e l’ennesima volta che ho sentito dire “Sì tutto bellissimo, ma il cavallo lo vuole fare?” mi sono incupita.
So che ho ricevuto tanto affetto da questi animali, e che una cosa che posso fare è scegliere in maniera consapevole dove allenarmi, trovare il posto in cui so che i cavalli vengono rispettati, in cui anche l’allenamento ha un approccio gentile, di collaborazione e non di sopraffazione.
Provo ad applicare questa regola un po’ a tutto quello che faccio, ma mi rimane sempre il dubbio che non stia facendo abbastanza per essere “sostenibile”.
Per fortuna ho parlato con Marco Spinelli, che mi ha rasserenata raccontandomi cosa fa lui per avere un impatto positivo sull’ambiente.
Marco è nato a Caltanissetta, lontano dal mare, ma comunque questo elemento lo ha attratto a sé: oggi, a 28 anni, è un filmmaker e fotografo documentarista subacqueo, che vuole raccontare le bellezze dei fondali marini e in che modo proteggerle e preservarle.
Ti ricordi in che modo ti sei avvicinato al mare?
Mio padre è sempre stato un grande appassionato di mare, immersioni, subacquea, apnea. Io e mio fratello quindi siamo cresciuti in acqua e sin da bambini ci immergevamo con nostro padre nelle zone di Cefalù.
La mia vita è sempre stata collegata al mare in modo naturale, e la mia passione è nata nel modo più genuino possibile.
Dico sempre che io e mio fratello Andrea ce l’abbiamo nel sangue: anche lui, più grande di me, sente questo legame col mare in modo molto forte. All’inizio le nostre strade si sono divise, lui ha studiato biologia marina e adesso è ricercatore all’Oceanografico di Valencia, mentre il mio percorso è stato un po’ diverso.
In che modo?
Ho iniziato a studiare video design allo IED di Milano, perché la mia passione più grande è sempre stata quella di raccontare storie. Dopo l’università ho iniziato a lavorare per Radio Deejay come videomaker.
Nel frattempo continuavo ad alimentare la mia passione per il mare, per la fotografia e i video subacquei: non ho mai smesso di fare immersioni con mio fratello, ho preso tutti i brevetti subacquei e comprato l’attrezzatura per girare video e scattare foto sott’acqua. Circa quattro anni fa ho cominciato a raccontare di più il mare attraverso piccoli progetti di comunicazione.
Ora ti dedichi completamente a questo tipo di progetti. Quando ti sei convinto che la tua carriera avrebbe preso questa direzione?
È stato proprio realizzando uno di questi progetti insieme a mio fratello, un breve documentario subacqueo, che ho capito che quel tipo di lavoro poteva diventare qualcosa di più grande. Quando mi sono reso conto che quel tipo di contenuto poteva avere grande risonanza ho cercato di collegare sempre di più il mio lavoro a quello di mio fratello, che poteva darmi un punto di vista scientifico sui temi che raccontavo, sugli animali, sugli ecosistemi marini.
Poter costruire un team solido con mio fratello è stata una grande fortuna: abbiamo una passione infinita e condividiamo grandi sogni.
Allora raccontami: com’è nato quel documentario?
Circa 3 anni fa, durante un’immersione in Sicilia, io e mio fratello abbiamo trovato un sito completamente ricoperto da reti fantasma: reti da pesca che vengono abbandonate o perse accidentalmente in mare.
Si tratta di una forma di inquinamento di cui io avevo solo sentito parlare, ma non l’avevo mai vista con i miei occhi. Vederlo in casa nostra ci ha colpiti molto, e per questo abbiamo deciso di realizzare un mini cortometraggio per sensibilizzare le persone sul tema.
Il corto ha iniziato a girare tantissimo e da lì è nata l’idea di realizzare un vero e proprio documentario, ma soprattutto di rimuovere quelle reti fantasma, per pulire i fondali. Il racconto sarebbe stato arricchito dall’apporto scientifico di mio fratello, per capire che impatto avessero arrecato quelle reti all’ecosistema.
E grazie a una raccolta fondi avete potuto realizzare Missione Euridice.
Esatto, siamo riusciti a raccogliere i fondi che ci servivano non solo per pulire il fondale ma anche per realizzare il documentario, che abbiamo chiamato Missione Euridice.
È stata questa esperienza che ti ha convinto a dedicarti alla divulgazione?
Sì, io e mio fratello abbiamo sempre amato il mare, ma da quel momento abbiamo cominciato a guardarlo in modo completamente diverso.
Trovare quella forma di inquinamento nel posto in cui sono cresciuto è stato il campanello d’allarme che mi ha convinto a fare qualcosa per l’ambiente, raccontando cosa sta in fondo al mare.
Siamo strettamente collegati a questo elemento e al suo benessere. Se il mare sta male l’intero ecosistema comincia a soffrire.
Ho iniziato a focalizzarmi sulla divulgazione ambientale proprio per diffondere più consapevolezza su questi temi.
La cosa bella del tuo lavoro è che decidi di agire per preservare l’ambiente nello stesso momento in cui lo stai raccontando.
Agire è il motivo per cui mi dedico ai documentari. Non sto cambiando il mondo, ma sicuramente mostrare cosa sto facendo e cosa ho visto con i miei occhi è un passo che può far bene all’ambiente. Posso far conoscere cose nuove e magari essere d’ispirazione per gli altri.
Tu racconti, agisci, fai divulgazione, sono tante cose e spesso faticose. Cos’è che ti motiva di più a fare questo lavoro?
Esplorare gli oceani di tutto il mondo e poter raccontare quante cose ho visto sott’acqua. Per esempio, la scorsa settimana siamo stati a fare delle immersioni con gli squali verdesca, e il momento in cui sono sott’acqua, fotografo lo squalo guardandolo negli occhi, è l’unico momento in cui mi sento veramente vivo.
Quando sott’acqua vedo animali che non ho mai visto prima e che posso osservare nel loro habitat mi si scollega completamente il cervello. È un’emozione sempre nuova, un'energia pazzesca.
Si sente che hai un fortissimo legame con l’oceano. Cosa rappresenta questo elemento per te?
Per me rappresenta la felicità. Tutti i momenti della mia vita in mare sono momenti felici. Sono cresciuto in questo ambiente e quindi per me è un elemento di serenità, che mi ha dato sempre tanto, e ora è diventato il mio lavoro. Mi ha permesso di condividere momenti con mio fratello, con i miei amici, con la mia famiglia. Perfino quando sono solo sott’acqua è come se non lo fossi veramente: il mare mi culla, mi dà sempre qualche emozione. È l’unico elemento che riesce a darmi questa sensazione.
Sembra tutto bellissimo. Immagino però che il tuo lavoro non sia sempre facile.
La difficoltà più grande è che bisogna sempre reinventarsi. È un lavoro estremamente creativo quindi se non alleni la testa a sviluppare delle idee ti blocchi. Per me significa andare al mare e creare contenuti. Oppure vedere un nuovo documentario, un film.
C’è poi la difficoltà di trovare finanziamenti per realizzare progetti sempre più grandi. Non bisogna aver paura di bussare alla porta di chi può aiutarti.
Qual è il progetto da cui senti di aver imparato di più?
Probabilmente sono due: Missione Euridice è stato il primo vero documentario, da cui ho imparato molto. Un altro progetto che mi viene in mente è il documentario “Io, Tevere”, che uscirà questo autunno, in cui con il surfista Roby D'Amico abbiamo attraversato il Tevere dalla sorgente alla foce del fiume per raccontare cosa succede lungo questo corso d’acqua, conosciuto principalmente per Roma e per l’inquinamento. In realtà il Tevere bagna più di quattro regioni ed è un mondo tutto da scoprire!
Tu sei sempre letteralmente immerso nella natura, la racconti e la conosci bene. Per te cosa vuol dire essere sostenibile?
Per me sostenibilità significa avere una maggiore consapevolezza rispetto alle cose che hai attorno, sapere di poter fare una scelta.
Ad esempio, se vado a filmare uno squalo in Thailandia sto prendendo un aereo – che inquina moltissimo – ma non ho un altro modo per vedere quello squalo. So però che il lavoro di divulgazione che vado a fare da lì avrà un altro impatto, spero positivo, sulla coscienza delle persone.
Allo stesso tempo, so che non posso imporre agli altri come vivere.
Vedo spesso persone che fanno terrorismo sul tema della sostenibilità, utilizzano un linguaggio estremo, ti fanno sentire come se comprare una bottiglietta di plastica ti rendesse una persona schifosa.
Secondo me, invece, prima di tutto la perfezione non esiste, e comunque qualsiasi persona su questo pianeta ha un impatto sull’ambiente.
Questo è forse uno dei motivi per cui soprattutto tra i più giovani sia sempre più grave la preoccupazione per il futuro del Pianeta – si parla di “eco-ansia” – causando disagio, sensi di colpa, incertezze, paura di quello che accadrà. Tu cosa ne pensi?
La mia idea è che i giovani di oggi sono nati in un periodo in cui il terrorismo ambientale è al massimo: non hanno vissuto, come me e te, un “prima” – in cui c’era troppa poca sensibilizzazione sul tema della sostenibilità – sono nati nel “dopo”, in un periodo in cui non ci si limita a far conoscere il problema, ma si comunica anche l’urgenza di rimediare, a volte però utilizzando toni troppo violenti.
Sono molto influenzati dalle continue notizie di proteste, di attivisti che imbrattano quadri, statue, bloccano autostrade. Sono azioni che fanno rumore e non fanno del male a nessuno, però penso che abbia più valore fare divulgazione, approfondire il problema e far capire davvero l’importanza di un animale, di un’azione concreta.
Io non sento questa eco-ansia: osservo quello che sta succedendo e mi rimbocco le maniche. Penso con ottimismo di poter trovare una strada per rimediare agli errori del passato.
Cosa consigli a chi si sente in ansia per la necessità di fare qualcosa per il Pianeta?
Di studiare. Attraverso lo studio capisci cosa succede attorno a te, cosa puoi fare per cambiare il Pianeta anche facendo cose che ti appassionano.
Per me è stato così: è l’amore per il racconto e per il mare che mi ha spinto a realizzare i documentari, a provare a cambiare le cose. Sarà perché sono cresciuto immaginando e sognando tante cose.
Qual è oggi il tuo sogno più grande?
Il sogno più grande è quello di poter viaggiare, raccontare gli oceani in tutti i modi. Io sono cresciuto col mito di Jacques Cousteau, l’esploratore marino più grande del mondo, sin da piccolo ho visto tutti i suoi documentari. Vorrei che anche i miei documentari venissero visti a livello mondiale.
Ora anche io ho voglia di fare immersioni. C’è un problema: ho un po’ paura dei pesci che stanno nel fondo del mare.
È una paura che ti passa se fai un corso con una persona fidata, che ti fa stare bene in acqua. Respirare sott’acqua poi è strano, è un mondo sottosopra.
È da provare: hai la possibilità di vedere un paesaggi completamente diversi da quelli che conosci. È pazzesco!
Bellissima intervista! Complimenti😊
Bellissima puntata 🫶🏻 welcome back Vale, e welcome back Andature!