Se hai ricevuto questa mail è perché in passato ci siamo già incontrati. In questa e nelle prossime newsletter parlerò di che cosa vuol dire per me – e per altre persone tra i 20 e i 30 anni – trovarsi a metà percorso, seguire i propri sogni, crescere su basi solide. In una parola, parlerò di "Andature", di percorsi che si intraprendono anche senza aver chiara la meta, del fatto che forse non c'è un tempo giusto per "diventare grandi", che a volte è bello rimanere "piccoli". E poi, "andature" è una parola che mi ricorda i miei due cuori: l'equitazione e la musica.
Premetto che ho più domande che risposte, che non sono "arrivata" da nessuna parte e non voglio insegnare la vita a nessuno. Voglio solo conoscere le vite di altre persone come me, e cercare insieme delle soluzioni per rendere tutto questo percorso più divertente.
Sarò felice se vorrai condividere "Andature" anche con altre persone, prometto che ne arriverà solo una al mese.
Se sbagli lo sai solo tu,
chi ti ascolta non sa cosa stai facendo,
sembrerà jazz
A 8 anni ho partecipato al mio primo saggio di pianoforte. Per prepararmi al meglio avevo imparato a suonare le tre canzoncine che mi avevano assegnato come solo una piccola saputella poteva imparare: a occhi chiusi, a mani invertite, al contrario, parlando al telefono, dipingendo…no dipingendo no, ma ci siamo capiti.
Ero anche la bambina più timida del pianeta. La maestra lo sapeva, quindi prima di salire sul palco, vedendomi tremare il 10 giugno in Sicilia, mi ha detto: “Se sbagli lo sai solo tu, chi ascolta non sa cosa stai facendo, sembrerà jazz”.
E non me lo sono più dimenticato.
Il saggio è andato bene, non ho sbagliato – forse anche perché ero rasserenata dalla possibilità di sembrare una jazzista – e così è stato per gli 8 anni successivi: ai saggi di musica, a metà giugno in Sicilia, non ho più tremato.
Ora non parlo più sottovoce, ho imparato a usare la timidezza a mio vantaggio, e solo da poco ho capito come sia stato possibile che in 10 anni di presentazioni in pubblico, tra università e lavoro, non sono mai svenuta su un palco: non mi importa più se faccio piccoli errori, so che chi mi ascolta il più delle volte non se ne accorge, e chi se ne accorge magari mi trova anche più simpatica.
Il jazz comunque lo sto imparando davvero. Ma ne parliamo un’altra volta.
Se hai solo cinque minuti, ti interesserà sapere che con Nicola abbiamo capito che:
la mia maestra aveva ragione,
l'errore non è tale se riesce a trasmettere un pezzettino di noi stessinon bisogna sempre fare tutto da soli: i successi sono belli a volte sono quelli condivisi
la cosa più importante è presentarsi al mondo così come si è, e raccontare la propria storia.
Se hai ancora un po' di tempo, ti racconto tutto dall'inizio.
Dall'ultima volta che ho visto Nicola sono passati 20 anni: eravamo vicini di casa e giocavamo ad acchiapparella nel cortile del condominio. Qualche anno fa mia mamma me lo aveva nominato dicendo che era andato a studiare musica a New York, che stava diventando un musicista famoso. Sinceramente, non mi era chiaro quanto fosse diventato bravo fin quando non l'ho richiamato qualche giorno fa, per raccontargli di questa newsletter.
Nicola suona il sassofono, ha un suo quartetto jazz, ha quasi 27 anni di cui sette li ha vissuti a New York, studiando alla Manhattan School of Music, e in giro per il mondo, suonando tra America ed Europa.
Mi racconta di aver “iniziato ufficialmente” a suonare a 4 anni, e di non aver mai smesso da quel momento. Dice di non aver mai scelto di fare il musicista, gli è sembrato sempre naturale suonare quando si trovava accanto a uno strumento.
Per lui suonare è un obbligo morale nei confronti di sé stesso.
Ti ricordi le prime volte che hai iniziato a suonare in pubblico?
Ho iniziato quando ero molto piccolo, ricordo un po’ la tremarella ma non in modo chiarissimo.
Le emozioni più forti le ho provate quando ho iniziato a esibirmi col sassofono.
Ricordo bene la tensione, che però è andata via col tempo; più suonavo più mi rendevo conto che potevo trasformare tutta quell’emozione a mio vantaggio: mi aiutava a concentrarmi, e in un certo senso mi faceva godere del momento, forse più di quanto succeda oggi.
Dopo tanti anni non senti più quell’emozione?
Da almeno sette anni mi capita raramente di sentire la tensione da palco. È successo in occasioni particolari, come quando ho fatto l’audizione per il Bachelor alla Manhattan School of Music, o quando ho calcato dei palchi importanti.
Ricordo bene la tensione di una situazione, per me assurda, che ho vissuto tre anni fa. Il mio musicista preferito, Ambrose Akinmusire, aveva programmato una settimana di concerti a New York al Village Vanguard, uno dei jazz club più importanti del mondo. Sono andato ad ascoltarlo tutte le sere. Dopo il concerto del sabato mi ha chiesto di tornare col sassofono per suonare insieme a lui la sera successiva. Quella domenica per me è stata terribile, ho tremato tutto il giorno, avevo così tanta paura che ho pagato un biglietto a un mio amico perché non volevo andare da solo. Ho provato una tensione fortissima, ma solo fino al momento in cui mi ha chiamato a suonare: una volta salito sul palco tutta la paura è andata via, l’ho trasformata in concentrazione.
E come fai a trasformare la tensione in concentrazione?
È come ti dicevo prima: preferisco usare la tensione per mantenere la concentrazione, che farla diventare paura di sbagliare. Avere la mente focalizzata su un possibile errore è qualcosa che occupa tanta memoria, tanto cervello. E non è funzionale, soprattutto se – come musicista – devi sempre ascoltare quello che succede intorno, reagire alla conversazione.
Ma ci sono arrivato col tempo, in più di 20 anni di saggi e concerti.
Ora l’emozione c’è sempre ma è qualcosa che mi fa pensare “È bellissimo qui, non vedo l’ora di cominciare”, non ho più paura di sbagliare.
Non sembra una cosa semplice.
Non lo è, io ci sono riuscito davvero dopo tanti anni. È come se avessi un interruttore nel cervello che riesce a capire come reagire nelle situazioni di tensione.
All’inizio viene naturale suonando le stesse cose, con persone di cui ti fidi, in un ambiente protetto. In questo modo si diventa sempre più consapevoli delle proprie capacità, che è diverso dall’essere superbi o egocentrici: è proprio sapere cosa si è in grado di fare.
La frase che ti ha detto la tua maestra è vera: nel jazz lo sbaglio va bene, se quando succede fai intendere che è uno sbaglio.
Noi diciamo sempre “una nota sbagliata se suonata con convinzione non è sbagliata”. Ed è vero, se fa parte di un flow, di un’idea, alla fine non è un errore.
Quindi l’errore può esserci se è coerente con il contesto in cui viene fatto.
Sì. Se è coerente all’interno di un discorso, l’errore può essere anche un elemento che trasmette la tua personalità. Certo, accettare l’errore richiede tempo, come la capacità di trasformare la paura di sbagliare in concentrazione. Bisogna trovare il coraggio di buttarsi nelle situazioni, anche se l’istinto ci dice di scappare e non fare nulla. Il momento peggiore è il momento subito prima di salire sul palco: superato quello non resta che agire.
Questo si può applicare a tante cose nella vita, come vivere da soli per la prima volta, o chiedere di uscire a una persona che ci piace. Bisogna trovare il coraggio di fare quell’ultimo passo e pensare “Ora lo faccio e basta, anche se sono spaventato a morte! Più si fa, più si diventa forti.
E una volta superata l’ansia, finalmente suoni.
Qual è il ricordo più bello che hai sulla musica?
Ce ne sono una miriade. Sicuramente uno dei più belli è quello del Village Vanguard che ti ho raccontato prima, forse anche perché dopo tanto tempo ho di nuovo provato quella tremarella, quell’ansia che senti nella bocca dello stomaco, sentivo tutto contorcersi.
Quindi si torna all’emozione! E qual è l’insegnamento più grande che ti ha dato la musica?
È il senso di comunità. Ho capito che fare le cose insieme ad altre persone è sempre meglio che farle da solo. È così sul palco, ma anche fuori: vivo con due musicisti con cui suoniamo tanto assieme, e le cose più belle succedono quando siamo sul divano a parlare di musica.
Stare con le persone, condividere la stessa passione, scambiarsi idee, accettare chiunque senza distinzioni: l’unica cosa che conta è quello che abbiamo da dire, la nostra storia.
Questa è la cosa più grande che mi ha insegnato la musica, che alla fine si trasforma nella vita.
In questi anni di musica sei passato dal pianoforte al sassofono, e hai preso tante altre decisioni. Mi dicevi che tuo padre ha sempre avuto un ruolo importante in questo.
Sì, mio padre è sempre stato uno step avanti a me, è sempre riuscito a indirizzarmi per andare già dove dovevo andare, anche quando non lo sapevo.
Alla fine ci sei arrivato dove volevi andare?
In questo momento no. La vera risposta è che un obiettivo in realtà non c’è, è una crescita costante.
Ho dei mini obiettivi che mi sono prefissato, che ho raggiunto. Però l’obiettivo della vita no, ovviamente non l’ho ancora raggiunto, ho fatto forse il 5% di quello che mi sono prefissato nella vita.
Probabilmente la maggior parte degli obiettivi ancora non li so neanche. Magari oggi pomeriggio riceverò una chiamata e tutti i miei obiettivi per i prossimi dieci anni cambieranno.
Non si sa mai.
C’è un grande sogno?
Certo. Voglio contribuire alla storia del jazz, voglio lasciare qualcosa, voglio avere il mio gruppo e portare la mia musica in tutto il mondo. Il sogno che tutti abbiamo è andare in giro, suonare e comunicare qualcosa alla gente, fare in modo che la gente riceva qualcosa di quello che abbiamo da dire.
E fino ad ora c’è stato un sogno che sei riuscito ad avverare?
New York, decisamente. È un sogno che sono riuscito a realizzare grazie ai miei genitori, che mi hanno aiutato tantissimo. Sicuramente aver suonato in tanti posti in tutto il mondo per me è importante, ne sono grato. Però la cosa più importante è essere riuscito a creare una comunità qui, avere tanti amici che spesso mi chiamano per suonare insieme.
Questo mi rende felice, perché evidentemente sto lasciando qualcosa in queste persone che si fidano delle mie capacità e delle mie idee. E per me è un grandissimo successo.
Forse è anche il segreto dei grandi musicisti, suonare con persone a cui tengono, di cui si fidano.
Tante volte si pensa che per arrivare alla gente bisogni semplicemente suonare bene. In realtà riusciamo ad arrivare meglio alla gente se siamo felici mentre facciamo quello che facciamo. Si ricollega anche al tema della tensione: se sei felice sul palco, anche se suoni male, il pubblico lo sente e si diverte con te.
Alla nostra età sento che non siamo ancora diventati adulti, ma non siamo nemmeno più dei ragazzini. Dobbiamo cominciare a prendere delle decisioni sulla nostra vita, e non sempre è facile. Qual è la decisione più importante che hai preso fino ad oggi?
Devo pensarci, ce ne sono un tante, e allo stesso tempo non sento di aver fatto scelte così importanti, o che mi sono pesate particolarmente.
In realtà tutte le decisioni importanti della mia vita sono state abbastanza naturali, sempre nella direzione di essere felice.
Forse trasferirmi a New York è stata la decisione più importante, mio padre mi ricorda sempre: “sai Nicola, in realtà avevi 20 anni, non conoscevi nessuno, sei andato lì alla cieca...”. Per come l’ho vissuta io è stato facilissimo scegliere!
C’è un consiglio che daresti a te stesso 10 anni fa?
“Fai tutto quello che ti viene per strada”, perché rifarei tutto quello che ho fatto. Anche: “Intrattieni più rapporti con le persone, non pensare di fare tutto da solo”. Specialmente quando mi sono trasferito a New York, infatti, volevo “sbattermi da solo”, ma oggi so che c’erano molte persone con cui avrei dovuto mantenere i rapporti, che mi avrebbero aiutato a non perdere alcune occasioni.
Un consiglio che ho letto sui tuoi social, che dai ad altri musicisti, è di “essere onesti” con lo strumento che si suona. Cosa intendi?
Per me è la base di tutto. Quando saliamo sul palco ci mettiamo completamente a nudo. Dobbiamo essere onesti per rispetto nei confronti della musica, del pubblico, di noi stessi.
Dobbiamo essere sempre fedeli a quello che siamo, alla nostra storia, alle nostre idee, perché non possiamo essere qualcun altro.
Possiamo studiare i grandi musicisti della storia, ma alla fine l’importante è cosa abbiamo noi da dire, essere onesti verso i nostri pensieri, le nostre idee, dare al pubblico tutti noi stessi. Non c’è niente di più.
Devo chiederti un’ultima cosa. Cos’è per te la musica?
È come se mi chiedessi “chi sei tu?”. È una cosa che mi rende felice: quando suono è come se tutti i miei problemi si risolvessero. Ti potrei dire le solite cose: che è un modo per trasmettere me stesso, per esprimermi al meglio, per creare amicizie.
Ma alla fine la musica fa parte di me così tanto che praticamente è il Tutto nella mia vita. È tutto quanto.
Grazie per aver letto fin qui.
Per me è stato molto bello e utile chiacchierare con Nicola di come scegliere un sogno e superare le nostre paure per realizzarlo. Spero sia stato interessante anche per te e, se hai voglia di parlare, puoi contattarmi sui social o via mail.