Spoiler: ho pianto.
Sono a teatro, si spengono le luci della sala e si accendono i riflettori su un’orchestra di 70 elementi che sta per suonare tutte le colonne sonore dei film che mi hanno cresciuta, quelle scritte da John Williams.
Parte la musica: “Summon the heroes” – leggo sul libretto – scritta per il centenario delle Olimpiadi moderne. Non la conosco, molto bella. Pausa, silenzio, parte il secondo pezzo: “ET - the extraterrestrial”. Mi prende alla sprovvista. Mi viene la pelle d’oca, comincio a tremare, lacrimo. Cerco di contenermi.
PIANGO SINGHIOZZANDO.
Provo a pensare a qualcosa che mi fa ridere – da piccola avevo paura di The Mask, questo mi fa ridere – perché devo affrontare in qualche modo le seguenti due ore di concerto, non posso essere la 71esima musicista con i miei singhiozzi e per trattenermi mi sto affogando. Disastro.
Penso a The Mask, al cane di The Mask, ai pupazzetti di The Mask.
Che fatica.
Intanto il concerto va avanti e partono le colonne sonore di Jurassic Park, Indiana Jones, Indiana Jones, – un bel po’ di Indiana Jones – prima di riuscire a riprendermi e respirare normalmente.
Maledetta K&K Philharmonic Orchestra. Maledetto Matthias G. Kendlinger che la dirigeva. Che cosa mi avete fatto?
Ci ho riflettuto poco tempo fa, mentre conoscevo un po’ meglio Reinout Bosman, che durante la nostra conversazione mi ha chiesto cosa mi facesse commuovere. Ci torno tra un po’.
Reinout è un artista. È un tenore lirico e si occupa anche di formazione nel campo del public speaking. È venuto in Italia dall’Olanda quasi otto anni fa e qui ha sentito di aver trovato la sua strada. Da quel momento porta la sua arte in tutte le attività che porta avanti, sia quelle musicali sia quelle di formazione: per lui il mondo è un teatro.
Come hai capito quale fosse la tua strada?
Nel 2012 ho fatto un tirocinio in Italia e ho capito subito che volevo vivere qui. Farlo diventare realtà però non è stato facile: non mi ero ancora laureato, quindi sono tornato in Olanda e nel 2014, quando ho iniziato una magistrale con tirocinio all’estero, ho scelto di nuovo di tornare in Italia, in particolare a Firenze. Sentivo che Firenze era la mia città d’elezione, come l’Italia la patria.
In quegli anni volevo trovare un lavoro in un ufficio, come tutti, ma per via di un sacco di cose non sono mai riuscito a trovarlo. Quindi ho pensato di andare a lavorare per una start-up, e ovviamente avevo bisogno di soldi, stavo investendo un sacco senza ritorno.
A quel punto, con le tasche vuote, sono tornato in Olanda. Sono entrato in una profonda crisi esistenziale, c’era una sola cosa che volevo nella vita ed era tornare in Italia, non sapevo perchè, ma lo volevo.
È proprio in quel momento che ho trovato la mia strada.
Cosa è successo?
In quel periodo continuavo a fare colloqui e continuavano ad andare male, fin quando non ho incontrato una signora che mi ha invitato a tenere una guest lecture all’Università di Rotterdam.
Io non avevo mai insegnato nella mia vita, ho deciso di andarci soprattutto perché la lezione era retribuita. Ed è nel momento più buio che l’alba è molto vicina.
Quando mi sono avvicinato al microfono, nell’aula magna, davanti a 200 studenti, ho sentito i brividi. Sai quando il tuo cuore perde un battito per un attimo? Sentivo le farfalle nello stomaco.
Era perché ero lì: stavo sul palco e l’artista dentro di me trovava casa.
Mi racconti di più di questa sensazione?
Quando ho visto l’aula e tutti quei ragazzi mi ha fatto un pò impressione.
Quando però il mio piede ha toccato il legno dell’aula magna mi sono sentito tranquillissimo. È la sensazione di quando stai tornando a casa e qualsiasi cosa accada ti senti pieno dentro. È quella morbidezza, quel bliss di quando senti che c’è qualcosa che ti scalda dentro. Non hai più bisogno di performare, di far vedere che sei bravo, perché ci sei.
Quella sensazione ce l’ho ancora. Prima di salire su un palco sento moltissima tensione perché voglio dare sempre il meglio, non dò mai niente per scontato. La cosa bella è che poi la tensione rimane dietro le quinte, posso salire sul palco sereno.
Cosa è successo dopo quella lezione?
Col cachet dell’università sono tornato in Italia, e da lì è nato tutto il resto.
Ho deciso di dedicarmi alla formazione basandomi su quello che mi era successo. Alla fine, qual è la grande sfida di un neo-laureato? Trovare la propria strada nella vita.
E indovina? Stavo vivendo la stessa cosa.
Io stavo trovando la mia strada seguendo il mio intuito e il mio cuore, e ho pensato che forse posso insegnare qualcosa anche agli altri, partendo dalla mia esperienza.
Come mai proprio il public speaking?
La mia attività nasce dall'intuizione che ognuno di noi abbia una voce e che spesso non ci facciamo sentire tanto bene perché pensiamo di non meritare di essere ascoltati, siamo convinti che la nostra opinione non vale nulla, o che l’idea che abbiamo non ha senso. Io voglio far trovare la strada alle persone, aiutarle a comunicare in modo efficace per i loro progetti ma soprattutto in modo autentico rispetto a come sono come persone.
L’altra cosa importante della tua vita è il canto. Come è iniziata la tua carriera da cantante lirico?
Quando ho cominciato a vivere a Firenze non avevo una lira. Ero pronto per cominciare la mia attività di formazione ma ci vuole del tempo prima di trovare gli incarichi.
In quel periodo ho incontrato una mezzosoprano – con cui sono entrato molto in confidenza – e che mi ha suggerito di cominciare a cantare per guadagnare dei soldi. Io non avevo mai cantato in vita mia, ma ho deciso comunque di provare. Quindi per un periodo ho cantato nelle strade di Firenze e guadagnato a sufficienza per pagarmi l’affitto e tirare avanti.
Poi, a febbraio 2017, ho incontrato una signora durante una serata di networking e avevo la sensazione che lei avesse delle informazioni per me. Qualche mese dopo, a ottobre, l’ho rivista e quando le ho proposto di collaborare lei mi ha risposto “Sì, ma devi essere un artista se vuoi fare formazione”. Io ho colto la palla al balzo: “Guarda, sono un tenore lirico. Si può fare!”. A quel punto lei mi ha suggerito di incontrare suo suocero: Angelo Rossi, un grandissimo tenore che ha cantato al San Carlo di Napoli, al Teatro Regio di Parma, alla Fenice di Venezia, oltre che in teatri esteri.
Non avevo grandi aspettative dall’incontro con questo signore di 92 anni, ma sono andato lo stesso, per farla felice.
Ho scoperto presto che mi aveva fatto un regalo bellissimo: alla prima lezione di canto con il Maestro Rossi avevo i brividi. E il rapporto incredibile che è nato dal mio lavoro con lui lo porto ancora in tutto quello che faccio.
Il Belcanto e quello che hai imparato cantando, infatti, è qualcosa che porti anche nella tua attività di formazione.
Sì, perché sono due attività che si svolgono sul palco e soprattutto hanno a che fare con un pubblico. Nel public speaking la storia che raccontiamo è centrale, ma quello che ho capito nella mia esperienza è che la cosa più importante, per il pubblico, è chi sei e quale energia trasmetti con la tua presenza. Quindi quando insegno public speaking lavoriamo molto anche sul lato della presenza artistica, sull’uso della voce.
Mi dicevi anche prima che aiuti le persone a “trovare la propria voce”. Cosa vuol dire?
Che quando fai qualcosa non senti più i tuoi limiti: sai che quello che stai facendo è la cosa giusta per te. Significa essere molto fedele a chi sei, alla tua autenticità.
Lo dice anche Gary Zuckav nel suo libro “The seat of the soul”: la tua energia si intreccia con la tua anima ed è lì che troviamo la nostra forza autentica.
Intendo questo quando parlo di “trovare la propria voce”. La trovi quando non hai più dubbi su quello che stai facendo, è tutto allineato e puoi procedere.
E il brivido di cui mi parlavi precede questa sensazione?
Sì, il brivido per come lo vivo io è la bussola. Quando mi propongono dei lavori accetto se sento che è una cosa interessante. Se non ho quell’intuizione allora non accetto. Lo faccio per rimanere fedele a me stesso: se faccio qualcosa solo perché penso di averne bisogno, in realtà sto dando via quello che è mio.
Prendere decisioni in questo modo è molto coraggioso. Ti è mai capitato di aver paura di seguire quel brivido?
All’inizio avevo una paura bestiale di deludere la persona che avevo di fronte, mi rendevo estremamente piccolo. Col tempo e con tante conversazioni col mio “gabinetto di cucina” – con i miei amici – ma anche lavorando con i Maestri di canto ho capito che le mie scelte sono mie, non hanno niente a che vedere con le persone a cui posso rifiutare dei lavori che non voglio fare.
Ho imparato anche che in quelle situazioni è utile parlare di cosa sento, della mia percezione.
Ancora oggi non è facile, col tempo però ho trovato dei meccanismi che mi aiutano ad affrontare quelle situazioni.
Ti è capitato di insegnarlo anche ad altri?
Sì, tante volte. Spesso la gente pensa di aver bisogno di qualcosa, ma strada facendo scopre di aver bisogno di altro. Con i miei clienti partiamo dal public speaking, ma tante volte ci troviamo a confrontarci su questo tipo di situazioni.
Te lo chiedo perchè tu mi sembri molto centrato e si vede che hai fatto un percorso. Invece se penso di usare il brivido come bussola nella mia vita è una cosa che mi fa un po’ paura. Mi immagino quindi che insegnarlo ad altri non deve essere semplice.
Ci vuole tanta sensibilità da parte mia, e mi piace ascoltare le persone. Il punto vero è che le persone hanno il coraggio di fare un passo quando sanno che a fianco c’è qualcuno che dice “Se va tutto male, io ti voglio bene, ci sono per te”.
È questo che provo a trasmettere ai miei studenti e clienti: gli dico sempre che se perdono fiducia in se stessi e nessuno gliela darà possono mandarmi una mail, perché io darò loro sempre questa fiducia. So chi sono e che sono qui per fare cose bellissime. Spesso basta solo questo pensiero.
Qual è la cosa più bella che ti è successa, nel tuo lavoro?
Quando faccio formazione: vedere arrivare i miei clienti ai loro scopi. Non come professionisti, ma come esseri umani. Quel momento in cui vedi che cominciano a vedere lucidità nelle loro cose.
Quando canto direi che è quando riesco a trasmettere l’emozione al pubblico.
Mi vuoi raccontare qualche episodio in particolare?
Ho avuto una cliente che aveva un po’ di timore del palcoscenico, ma in realtà aveva anche un po’ di timore della vita. È venuta da me con la classica richiesta: voglio essere più a mio agio quando parlo a un pubblico. Abbiamo lavorato soprattutto sulla sua vocalità, perchè quello che ho imparato anche io è che la voce rispecchia ciò che vive nella nostra anima, è tutto collegato. Vedevo che più la rendevo vocale, più fiduciosa e a suo agio lei si sentiva. Fino a che non è venuta da me e mi ha detto “Ho fatto una scelta importante, ho chiesto il divorzio, perchè mi merito molto di più in questa vita. Me l’hai insegnato tu”.
Vuol dire che lavorando sulla vocalità si lavora un po’ anche sulla parte psicologica. Ho capito di poter fare una differenza nella vita di un’altra persona che ha superato un ostacolo veramente difficile. E questo mi ha commosso. È la cosa più bella del lavoro che faccio.
Ti va di raccontarmi anche qualcosa legato al canto?
Due anni fa a Padova stavo cantando “Non t’amo più”, di Francesco Paolo Tosti, una romanza che parla della perdita di una persona, di quel momento in cui ti stai convincendo che in realtà non la ami più.
La prima frase è “Ricordi ancora il dì che c’incontrammo” e da subito un ragazzo in terza fila ha cominciato a piangere. Ho cercato di non prestarci troppa attenzione, altrimenti mi sarei commosso anche io. A fine concerto lui è venuto da me e gli ho detto che avevo notato che aveva pianto come una spugna, che forse non era stata una serata facile per lui. Lui mi ha detto che era vero, perché sembrava quasi che tutte le romanze e le arie che avevo cantato le avessi cantate per lui, per raccontargli qualcosa.
Mi ha anche detto di aver perso la sua fidanzata, e che non era riuscito a piangere fino a quella sera. Ha aggiunto “Si sentiva che l’hai fatto con l’intenzione di farci guarire da qualcosa”.
È stato molto bello e me lo ricordo ancora vivamente.
Se io posso avere quell’impatto possiamo averlo tutti.
Quando canti, per chi lo fai?
Per chi ho davanti a me. Quando sono sul palcoscenico sento la responsabilità di fare un buon lavoro per chi mi ascolta. È molto service-based, me ne rendo conto: faccio un bel po’ per gli altri.
Canto anche per me stesso, perché so l’effetto che il canto ha su di me: sul mio corpo, sulla mia mente, sui miei pensieri. Il canto per me è una forma di terapia, mi aiuta ad elaborare le mie emozioni, staccare la mia mente e mi nutre come artista, e questo mi piace molto. Mi fa sentire a casa.
Posso chiederti di raccontare a chi ti leggerà: qual è la tua voce?
Penso di avere una voce centrata, ma che ancora non si fa controllare completamente. Ogni tanto mi scappa, mi trovo nel buio e mi chiedo: cosa sto facendo? sto facendo la cosa giusta? sto sbagliando? Quindi è una voce consolidata ma ogni tanto mi fa impazzire ancora. Ho le mie insicurezze anch'io ma la mia fiducia è, per fortuna, sempre un pelo più grande, che è sufficiente per andare avanti sempre.
Ovviamente anche io ho il mio percorso di vita da svolgere, e come tutti ho le mie lezioni, le mie paure, i momenti in cui sono giù e non so bene cosa fare. Tutto quello è la mia voce. È una voce che ha ancora bisogno di tanta attenzione, tanta cura, tante coccole per poter splendere come dovrebbe.
Cosa ti commuove, posso chiedertelo?
Mi commuovono le cose fatte bene, fatte col cuore e fatte con passione – ed è qui che ho parlato del concerto e di ET, sentivo che con quella canzone lì l’orchestra era partita con un’emozione in più – e quando ascolto la musica dal vivo mi succede spesso.
Ti capisco. A giugno di quest’anno all’arena di Verona c’è stata una serata dedicata alla lirica come patrimonio dell’umanità. Io la guardavo dalla TV. Dirigeva il Maestro Riccardo Muti, con 250 coristi più 300 musicisti. Una bomba, una cosa gigantesca. Il coro ha cantato il “Va Pensiero” del Nabucco.
Ho i brividi anche adesso mentre te ne parlo.
Ho pianto dall’inizio alla fine, ero in apnea, avevo il battito del cuore a 3000, forse ho bruciato 1000 calorie solo ascoltando quel pezzo!
Sembrava una cosa stratosferica, non più di questa Terra. Ed era musica.
E si vedeva che Muti dirigeva l’orchestra con il suo cuore. Si vedeva, lo trasmetteva chiaramente. Favoloso.
Ci sono persone che riescono veramente a dare tutto, e sono gigantesche. È un dono importantissimo.
È un dono che sono convinto che ognuno può trasmettere sul proprio palcoscenico. Che non deve essere per forza l’Arena di Verona o una carriera in cui giri per il mondo: ognuno ha il suo posto dove può brillare. Potrebbe essere fare volontariato, essere un bravo genitore, andare a correre con un gruppo di amici.
Qualsiasi palcoscenico, grande o piccolo, non importa. L’importante è che tu puoi essere Muti, Williams o chiunque tu voglia essere. Spero soprattutto te stessa.
Tu sei molto fortunato ad aver trovato la tua dimensione, il tuo palcoscenico nel tuo lavoro, oltre che nel posto in cui stai. La scintilla, il brivido – sono d’accordo con te – non deve per forza sentirsi nella vita professionale perché nessuno di noi è il proprio lavoro.
Certamente è ideale se fai qualcosa che ti piace. Spesso però ci identifichiamo con il lavoro che facciamo e lo riteniamo talmente importante che quando da un momento all’altro quella cosa non c’è più ci perdiamo completamente. E per questo è importante la fiducia.
La vita ci porta quello che abbiamo per poter brillare in qualsiasi ambito e noi ci fidiamo troppo poco di questa verità. Mi commuovo quando te lo dico: la vita universale è buona ed è qui per darci la spinta nella giusta direzione.
È più importante quindi capire con che intenzione facciamo le cose, quale energia portiamo con noi: cosa vogliamo trasmettere? per quale scopo vogliamo utilizzare il nostro palcoscenico?
Grazie, perché tanti – io per prima, molto spesso – secondo me se lo dimenticano.
Esatto, e per questo motivo abbiamo bisogno del supporto esterno: non possiamo fare tutto da soli. Vorremmo – per dimostrare che siamo capaci, bravi, coraggiosi e forti – ma va anche bene ogni tanto non avere idea di cosa stiamo facendo.
Io stesso posso dire cose con tanta saggezza e profondità, e allo stesso tempo sto capendo la vita giorno dopo giorno, come fanno tutti gli altri.
Si tratta di imparare e diventare sempre migliori, no? Altrimenti non cresceremmo mai.
Questo me l’ha detto anche il mio primo Maestro quando gli chiesi quando avesse finito di studiare, perché pensavo che a un certo punto arrivi, ci sei, no? Lui guardò il suo orologio e disse “Ho finito cinque minuti fa, perché sei entrato qui e ti dovevo salutare”.
Mi ha dato grandi insegnamenti lui: a 95 anni, una settimana prima di morire mi ha detto “Renato – mi chiamava sempre Renato – voglio vivere così, col sole in fronte. E felice canto beatamente.”
Con la pelle d’oca ancora addosso, vi faccio un ultima segnalazione musicale:
È uscito il nuovo album di Nicola Caminiti, Vivid Tales of a Blurry Self-Portrait, ascoltatelo, compratelo e se volete sapere di più della sua storia, qui parlavamo di jazz e di paura di sbagliare.
Anche io ora ho la pelle d'oca!